Conservatorio "Pietro Mascagni" di Livorno - Luglio 2017

La Batteria Melodica

di marcello sanna

Un'altra bella intervista realizzata da uno studente impegnato nella conclusione del suo percorso di studi. Stavolta è Marcello Sanna, laureando in "Batteria e Percussioni Jazz" al Conservatorio "Pietro Mascagni" di Livorno a interpellare Alessio riguardo alcune questioni fondamentali del rapporto con batteria e batterismo. La tesi completa è visionabile qui.


D - Come ti sei avvicinato alla batteria?

R - Da un punto di vista pratico direi piuttosto casualmente. A scuola ho incontrato un amico che suonava, al loro gruppo mancava un batterista e da lì tutto è cominciato. Mi sono subito profondamente appassionato e la musica è diventata la cosa più importante, un universo sfaccettato e calamitante semplicemente irresistibile. Mi piace interpretare questo evento in maniera hillmaniana: il mio daimon che si manifesta all’improvviso, invitandomi a compiere un cammino che inizia per caso ma che trova un immediato e inequivocabile riscontro nella passione ossessiva e in una predisposizione naturale che è sembrata subito evidente.

D - Hai utilizzato set tradizionali modificandoli nel tempo?

R - Ho iniziato a suonare su un kit piuttosto classico, sei pezzi più i piatti. Amando il rock progressivo sono poi passato a batterie più estese ma sempre con configurazioni tradizionali. Dal 1995, in linea con una mutazione artistica che investiva sia gli ascolti sia una rinnovata idea di drumming, ho iniziato a sperimentare con set up decisamente più arditi: variazione della disposizione degli strumenti del kit, fusti con misure inusuali, utilizzo di prototipi di piatti e percussioni metalliche, pedali auto-costruiti e molto altro. In quegli anni la mia attività di sideman era ancora piuttosto intensa e quindi mi ritrovavo spesso a suonare batterie tradizionali, specie nei tour, in cui utilizzavo strumenti messi a disposizione dai backline o che trovavo sui luoghi dei concerti, e nei contesti più specificamente jazzistici, sia con piccole formazioni che con big band. Col tempo, però, ho praticamente abbandonato la batteria configurata tradizionalmente per dedicarmi in toto al mio strumento, che ho denominato The Metalanguage Unit proprio per evidenziare anche attraverso il nome l’idea di evoluzione del linguaggio cui volevo lavorare attraverso il mio drumming: mi piaceva l’idea che lo strumento avesse un nome che amplificasse i significati che intendevo convogliare nella mia musica.

D - Hai una particolare routine di studio? E come è cambiata nel tempo?

R - Adoro studiare, da sempre. Ho fatto della practice una vera e propria filosofia di vita, al punto che se per troppo tempo sto lontano dagli strumenti mi sento pervaso da un malessere che non è soltanto emotivo. E’ un mix di sensazioni cui non voglio rinunciare: l’idea di dedizione, di commitment, la verticalità che lo studio profondo immette quasi automaticamente nel rapporto con lo strumento, la percezione di star dando alla musica l’importanza che merita, il piacere fisico di suonare, di mettere in gioco risonanze che, ovviamente, non sono soltanto acustiche. 

    Impossibile raccontarti di tutte le practice schedules che mi sono fatto in questi anni: all’inizio (e ancora oggi per alcuni argomenti specifici) mi sono appassionato alle grid americane, a una routine dettagliata e meticolosa, a trecentosessanta gradi, che se perpetrata nel tempo produce risultati tangibili e a lungo termine. Chiaramente, anno dopo anno ho modificato le direttive della mia practice in base alle esigenze del momento. Oggi studio quasi soltanto ciò che suono: il drumming che impiego nelle mie composizioni e le tecniche che lo costituiscono, che è un lavoro sia pratico che filosofico-concettuale. In più tanta tecnica delle mani, poliritmi, groupings, percussioni e tutto ciò che mi serve per continuare ad evolvere come musicista e drummer.

D - Quali sono le cose o le tecniche su cui hai investito più tempo in fase di studio dello strumento?

R - Come ho appena scritto, nei primi anni da batterista ho lavorato sulla costituzione di fondamenta solide: lettura, tecnica, coordinazione, conoscenza degli stili. Mi sono appassionato tantissimo alla storia dello strumento, dell’evoluzione del drumkit e dei linguaggi associati alle varie epoche della storia della musica e del jazz in particolare. Nell’epoca pre-web il lavoro necessario a procacciarsi le informazioni sull’evoluzione di batteria e batterismo era davvero improbo, ma ha fatto si che la mia formazione in tal senso sia davvero ferrata. Quando poi ho cominciato a dedicarmi completamente a The Metalanguage Unit la quasi totalità del mio lavoro si è concentrata sul cercare di imparare a suonare quel dato strumento. Ciò voleva dire certamente acquisire una facilità motoria su un set estremamente esteso e pure modificato in alcuni aspetti chiave dell’ergonomia del batterista, ma, più importante, creare condizioni espressive e linguistiche che fossero assolutamente figlie di quello strumento, che ne fossero espressione coerente: per me non aveva davvero senso sviluppare una batteria unica e particolare per poi finire a suonare le stesse cose che potevo eseguire su uno strumento tradizionale.

D - Come nasce a grandi linee una tua frase sul set? E come definisci il tuo senso melodico sullo strumento?

R - Rispondere non è semplice. Ho sviluppato The Metalanguage Unit con l’obbiettivo, forte, di rivedere dalle fondamenta l’idea che avevo dell’approccio alla batteria, fra cui anche i concetti che menzioni tu. Appare evidente che nel 2017 e con tutta la storia che abbiamo alle spalle occorra cercare di re-interpretare la “frase” o il “senso melodico” mediandoli con le istanze della contemporaneità che più sentiamo affini. Credo profondamente che lo strumento sia in questo un senso una guida: suonare su un kit molto esteso e estremamente customizzato “costringerà” (le virgolette sono d’obbligo) a sviluppare strategie di movimento (e quindi di fraseggio) completamente diverse dal suonare su un kit quattro pezzi. Ecco, io parto da qui: l’idea di strumento come temenos, luogo speciale in cui dar forma a musica speciale, e questa musica si sviluppa tramite la batteria. Come spesso accade la trasposizione pratica di queste aspettative creative passa attraverso un equilibrato mix di istinto e raziocinio. Si va sullo strumento e si suona: ci si lascia andare, si sbaglia, certo, ma si riflette sugli errori. Si modifica, si scolpisce, si riesce. La cosa più importante è rimanere immersi in questa dimensione creativa anche quando si è lontani dal proprio drumkit.

D - Se ti dico "Batteria Melodica" come ti rapporti a tale aspetto? Quali sono secondo te i pionieri di questa tecnica/pratica di tutti i tempi e chi ne ha fatto caratteristica stilistica?

R -  La questione della batteria melodica è interessante e delicata. Credo che ormai non ci sia davvero più bisogno di giustificare le potenzialità melodiche della batteria. La storia dello strumento parla chiaro: da Max Roach e Shelly Manne a Jeff Hamilton e Ari Hoenig, sono tanti i batteristi che hanno lavorato proficuamente a una concezione melodica del drumming, nel fraseggio ma pure nell’idea di fondo, dalla modalità dell’organizzazione della coordinazione fino all’accordatura dello strumento e alle varie strategie per ottenere differenti pitch dallo stesso tamburo. Anche da un punto di vista della pedagogia l’approccio al melodic drumming è conclamato: da Alan Dawson a Ed Soph fino a Peter Erskine, le soluzioni didattiche per imparare a concepire la batteria in questo modo sono oramai popolarissime. 

    Ciò che ho amato profondamente nel drumming di Terry Bozzio e Pete Zeldman è stato il lavoro che hanno fatto, meravigliosamente, nello sviluppare una differente idea di melodia batteristica, associandoci potenti istanze meta-musicali e simboliche. Ciò a cui sto lavorando, sia attraverso la dimensione live che nella musica dei miei dischi, è lo sviluppo di una melodia non necessariamente orizzontale: ibrida, frastagliata, diacronica, problematizzata (e problematizzante). Se ciò è più semplice nella dimensione compositiva (sebbene processo lungo e faticoso), sullo strumento è faccenda più delicata. Il rischio del cliché è altissimo, per tutti. Continuo ad associare l’idea di un drumming personale, fresco a un contesto espressivo altrettanto particolare ed esclusivo. Nel mio ultimo album, Ninshubar, penso di esserci riuscito. Sto lavorando sodo per portare a conclusione l’applicazione di queste idee anche alla dimensione del live solo.

D - Come influisce l'accordatura e in quale modo approcci in tal senso? Dovendo fare una "melodizzazione" di una frase o uno standard questa varierebbe? E in che modo? 

R - Usando uno strumento molto grande l’accordatura è decisamente importante. I miei tamburi sono tutti accordati secondo una nota di riferimento, per ragioni melodiche ma anche pratiche: sapere che un determinato tamburo suona intorno a una certa nota mi semplifica notevolmente le operazioni di tuning. Negli anni ho sperimentato moltissimo con le accordature più svariate: altezze estreme, associate all’uso di pelli particolari montate su tamburi con misure inusuali, davano risultati sonori decisamente originali e accattivanti. Attualmente, sulla mia Sonor SQ2, credo di aver raggiunto un buon equilibrio fra le esigenze puramente creative e la loro applicazione su strumenti figli della techhé contemporanea, che è poi un concetto che mi ha sempre ossessivamente ispirato anche da un punto di vista stilistico (tipo: Milford Graves che si fonde con Terry Bozzio in un meraviglioso ibrido cronenbergheriano!). Accordo quindi tamburi costruiti con criteri tecnici di altissimo livello secondo esigenze espressive prive di compromessi, scegliendo le pelli che più esaltano determinati colori e risonanze.

    Riguardo a melodizzare uno standard jazz, procedura espressiva che è divenuta piacevolmente di routine anche a livello didattico, non credo che sia necessario accordare il kit quattro pezzi secondo note ben precise. Tendenzialmente si procede rispettando il pitch, l’altezza delle note, orchestrando la melodia sul set, scegliendo se e quanto abbellire. Oppure si fa come Ari Hoenig che orchestra standard be-bop zeppi di note ricavando da un singolo tamburo pitch differenti premendo sulle pelli e stoppandole in vari modi, in maniera davvero efficace.

D - Quali sono i batteristi jazz (e non solo) che ti hanno maggiormente influenzato?

R - Sono moltissimi. Nel jazz mi sono innamorato di Max Roach, per l’intelligenza architettonica, la cultura, il coraggio militante, l’esplosivo mix di tecnica e musicalità. Poi è venuto Jack DeJohnette, per i motivi opposti: fraseggi imprevedibili, rapporto elastico con ritmo e struttura, grande senso di organicità. Dopo è stata la volta del free jazz: Andrew Cyrille con Cecil Taylor, Sunny Murray con Albert Ayler, gli europei Pierre Favre e Tony Oxley, un fiume in piena che ha travolto le mie sicurezze percussive. In realtà, come ho già detto, batteristicamente nasco con il rock: Neil Peart dei Rush e Bill Bruford rimangono due dei miei idoli assoluti. Scoprendo la fusion ho amato alla follia Dave Weckl e Vinnie Colaiuta, assieme alla classe infinita di Peter Erskine. Successivamente è stata la volta di drummers che suonavano un jazz più avventuroso: Joey Baron, Jim Black, Tom Rainey, Bobby Previte, musicisti intelligenti e attivamente coinvolti in progetti musicali davvero originali.

    Oggi i batteristi fortissimi sono davvero tanti. Fra i miei preferiti in assoluto metto Zach Danziger, un vero innovatore, Ari Hoenig, grande intelligenza e personalità, Keith Carlock, un gigante. Mi piacciono tanto anche Dan Weiss, che è anche compositore davvero notevole, Gerald Cleaver, che nel nutritissimo panorama jazzistico mi sembra che si distingua per sensibilità e personalità, Jeff Ballard, un vero master drummer, Nate Wood dei Kneebody e anche Dave King dei The Bad Plus, due batteristi che hanno saputo fondere molto bene l’imprevedibile poliedricità del jazz drummer con il senso di appartenenza e di architettonicità tipici dei batteristi da band.

    In ultima istanza, però, i due drummers che più in assoluto hanno ispirato il mio cammino sono stati i già citati Terry Bozzio e Pete Zeldman. 

D - Se guardi agli albori come vedi la tua crescita tecnica e stilistica? Dai primissimi progetti ad ora cosa è cambiato? 

R - Direi che è cambiato praticamente tutto! Ho iniziato suonando Heavy Metal, sono passato dal Progressive alla Fusion e al Jazz. Ho suonato in orchestre classiche ed ensemble di musica da camera. Tanta big band jazz ma anche tanta musica improvvisata, la cui radicalità mi ha a un certo punto davvero rapito. Credo però che al centro di questo vorticare ci sia sempre stato lo strumento, la batteria: suonare, certo, ma anche incasellare il proprio percorso nel flusso del drumming contemporaneo, sia da un punto di vista linguistico che storico. Ho sempre cercato di dare ai miei progetti e al mio approccio alla musica in generale un respiro internazionale, dalle collaborazioni alla direzione stilistica che ho intrapreso.

    Da un punto di vista tecnico e musicale, poi, sono davvero giunto a esplorare territori che all’inizio del mio percorso nemmeno mi sognavo. Un approccio metodico al drumming mi ha permesso di sviluppare qualità batteristiche importanti ma allo stesso tempo non mi ha frenato quando ho sentito il bisogno di uno scarto, di una virata forte, tesa a incontrare musiche fino a quel momento per me inedite. Oggi suono la musica che più amo, un mix di elettro-acustica, jazz, performance nel senso più ampio del termine, sempre condite però da un flusso percussivo torrenziale, tanto acustico quanto elettronico, suonato live ma anche molto ibridato. L’idea è quella di un linguaggio ritmico inusuale, atipico, sovversivo.

D - Quali sono i tuoi progetti attualmente? E quali in futuro ?

R - Sto ultimando sia un album, con sonorità e direzione musicale direi analoga al precedente “Ninshubar”, che un libro sui poliritmi. Al momento questi due progetti catalizzano gran parte delle mie attenzioni. In cantiere però anche un altro album e, soprattutto, un progetto di solo drums cui tengo moltissimo: ancora un po’ di lavoro e sarà pronto!