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1999

Alessio Riccio - La ricerca Innanzitutto

 

di Luigi Radassao e Mario A. Riggio

 

    

 

Il primo lavoro discografico a proprio nome è fresco fresco di pubblicazione e non si tratta certo di un lavoro di facile ascolto. C'era da aspettarselo, d'altronde, considerato che ad Alessio Riccio, lo sappiamo, non piacciono i percorsi semplici. E, giusto per non smentirsi, Drawing/Works for Drums and Cello (questo il titolo del disco) oltre alla sua discografia "solista" inaugura anche una nuova casa di edizioni musicali, la Unorthodox Recordings, creata e curata in tutti i suoi aspetti (progettuali e realizzativi, tecnici ed economici, artistici ed editoriali) dallo stesso Alessio.


    D - Partiamo da questa doppia, ed un po' inconsueta, vocazione musical-editoriale per attaccar discorso con il giovane musicista fiorentino, uno dei più interessanti percussionisti in circolazione.

    R - Era da tanto tempo che avevo in mente la creazione di una struttura editoriale che mi permettesse di realizzare i miei progetti mantenendone la potestà e la possibilità di curarne i dettagli, monitorandone anche i risultati. È stato come concretizzare un piccolo "sogno", attraverso il quale riesco a mantenere intatta la funzione poetica che per me la musica deve possedere per giungere a chi ascolta, portando con sé la mia verità di uomo ed artista.

    D - Da dove è nata l'idea del duo (in Drawing c'è Ernst Rejiseger a tenere compagnia ad Alessio)? È stata una combinazione oppure una scelta ben precisa quella di chiamare al tuo fianco uno dei più eclettici (ed apprezzati) improvvisatori della nuova avanguardia europea?

    R - Il duo è una dimensione che amo molto, soprattutto quando prende vita in collaborazione con musicisti dotati di forza, immaginazione e sensibilità. Ernst l'ho "scelto" perché volevo affiancare le sonorità di due strumenti storicamente lontani come batteria e violoncello, anche se nelle sue mani i colori dello strumento si moltiplicano a dismisura, allargandone i confini stilistici.

    D - Puoi dirci due parole sui pezzi, la loro "composizione", la loro condivisione con Rejiseger e la loro incisione?

    R - Veramente non c'è molto da dire dato che è un progetto fondato sull'improvvisazione totale. In base alle caratteristiche del brano che dovevamo incidere discutevamo brevemente di alcuni dettagli esecutivi che, a seconda delle caratteristiche su cui l'improvvisazione doveva prendere forma, potevano essere la struttura, la durata, l'influenza dei nastri manipolati sui quali improvvisavamo: ma erano semplici scambi di opinioni piuttosto che direttive musicali. L'improvvisazione di gruppo è uno dei modi più poetici che esistono per far musica: si crea spontaneamente un connubio artistico e spirituale la cui forza espressiva ha la facoltà di sconvolgermi tutte le volte.

    D - So che anche le tue prossime (imminenti) uscite discografiche ti vedono operare in altre formazioni ristrette, quasi "cameristiche". Puoi farci i nomi di qualcuno dei tuoi collaboratori e dirci qualche cosa dei progetti?

     R - Sono progetti molto diversi l'uno dall'altro ma riconducibili ad una matrice unica e costante nel tempo: la musica creativa. Usciranno ogni tre mesi, tra gli altri, un trio con Stefano Battaglia e Dominique Pifarély; un progetto con ottoni (Michel Godard e Gianluca Petrella), voce e strumenti a fiato folklorici; due dischi con il mio quartetto "Homage to a Dream" (trombone, clarinetto basso e voce); un progetto per grande gruppo molto elettronico (con Tim Berne) e diversi progetti in solo. L'unica cosa che voglio dirti, per non rovinare la sorpresa, è che allestisco questi progetti senza pensare alle conseguenze "batteristiche", nel senso che rappresentano sempre occasioni per mettermi in discussione come uomo ed artista poiché nascono, se mi passi il termine trapezistico, senza rete.

    D - Si tratta, viceversa, di un ensemble molto ampio quello nel quale militi sotto la guida di Stefano Battaglia, forse il pianista italiano in questo momento più visionario. Nonostante anche qui una grande parte della musica sia affidata all'improvvisazione, quali differenze e quali similitudini riscontri nei due approcci?

    R - Il lavoro con "Theatrum" mette alla prova la maturità, la versatilità (nel senso più nobile del termine), la sensibilità e l'intelligenza musicale. È un ensemble nel quale suono di tutto, batteria, tamburi etnici, strumenti a tastiera, piccole percussioni, ed in ogni modo, improvvisando, interpretando o eseguendo. Ancora una volta l'approccio è molto spontaneo, a patto che ci si trovi a proprio agio procedendo sulla sottile linea che divide il jazz moderno dalle più attuali forme di contaminazione tra musica colta ed etnica (specialmente quella delle popolazioni nomadi e nordafricane). In ogni caso è un organico che mette costantemente alla prova le qualità dei musicisti che ne fanno parte ed è per questo che ci milito, oltre a nutrire una sincera stima per Stefano ed i musicisti che lo seguono in questa avventura.

    D - Ed il tuo approccio alla musica ed alle formazioni di Claude Barthélémy, altro musicista visionario, questa volta francese e chitarrista, con cui collabori da alcuni anni?

    R - Ritengo che anche con Claude ci troviamo sempre nell'ambito di una musica attualissima. Suono con lui in duo, trio, quartetto e formazioni più ampie. Queste ultime, in particolar modo, le adoro, sono ricche di fascino: scrive musica estremamente complessa, a tratti virtuosistica, che mi ricorda quella di uno dei miei "eroi", Frank Zappa. Si passa dall'interpretazione di figure "impossibili" di stampo colto, al jazz, all'improvvisazione totale, spesso in spazi ristrettissimi, senza un attimo di respiro. L'approccio poi è sempre trasversale e credo che sia questo il motivo per cui Claude mi ha scelto per i suoi ensemble: pensa che durante i soundcheck suoniamo "Jump" dei Van Halen!

 

    D - Nei tuoi "anni di formazione" hai frequentato il Conservatorio, hai vinto diverse borse di studio (Berklee, Drummers Collective, Siena Jazz), hai avuto occasione di suonare con notissimi nomi del panorama jazzistico contemporaneo (Carla Bley, Evan Parker, Steve Swallow, Steve Lacy, Steve Coleman, Franco D'Andrea, Mario Raja, Paolo Fresu...), hai anche frequentato il mondo del rock: che cosa ti hanno dato tutte queste esperienze, così differenti tra loro?

    R - Hai detto bene, erano gli anni di formazione, quelli in cui suonare non è soltanto un'esigenza artistica, ma anche legata all'apprendimento: era naturale per me espandere il più possibile lo spettro delle mie esperienze. Con il rock ci sono nato ed è qualcosa che porterò sempre dentro di me. Purtroppo non è facile trovare musicisti di un certo livello con i quali suonarlo: l'Italia in generale e Firenze nello specifico non sono certo luoghi di tradizione rockettara. Io, inoltre, prediligo il rock anglofono. Per quanto riguarda i musicisti di jazz sono stati tutti fondamentali: dal primo che mi ha scoperto, Attilio Zanchi, a quelli con i quali collaboro tutt'oggi. Ognuno di loro mi ha insegnato qualche cosa: dal rispetto per la musica, al non aver paura di fare scelte controcorrente, al concedersi tempo e fiducia, allo sviluppare la mia personale visione delle cose. Mi considero un musicista allo stesso tempo coerente e trasversale, a patto di essere coinvolto in progetti fondati sulla creatività, quella che non è possibile imbrigliare, priva di dogmi, quella che permette la manifestazione della musica nel suo stadio più sublime, indipendentemente dalla collocazione stilistica.

    D - Parlaci un po' del particolarissimo set percussivo che suoni: ho contato 32 tra piatti e metallofoni di ogni sorta e 15 tamburi delle forme e dimensioni più diverse; i pedali sono addirittura 14. Lo hai ribattezzato The Metalanguage Unit...

    R - È la materializzazione di una visione che ho avuto anni fa e lo considero una delle espressioni più vere della mia natura originale, della mia essenza di musicista La sua realizzazione mi ha preso tempo e sforzi ed è avvenuta in diverse fasi. È un'entità esigente, in continua evoluzione e mi richiede una dedizione assoluta, quasi ascetica, che mi ha anche costretto a ricostruire il legame musicista-strumento: è attraverso questo processo di distruzione-ricostruzione che ho scoperto la mia originalità di musicista. è stato un processo lungo ma insostituibile.

    D - Anche l'uso che fai dell'elettronica è del tutto particolare: la utilizzi infatti sia in tempo reale, per l'elaborazione di "loop", campionamenti e ribattimenti ritmici di durata variabile, sia nella successiva fase di editing, attraverso una certosina rielaborazione del suono. Quali competenze e quale particolare approccio creativo ti ha richiesto tutto ciò?

    R - Le competenze sono legate alle notevoli esigenze funzionali dei processori elettronici che, spesso, non sono semplici da gestire: quelli di livello più elevato sono molto costosi e, di conseguenza, tocca ripiegare su mezzi di livello medio/alto e cercare di spremere loro tutto ciò che possono darti. Su un piano ancora superiore si pone il problema del far musica attraverso l'elettronica e la rielaborazione del suono, sia che questo processo avvenga in diretta oppure a posteriori: dobbiamo sempre tenere presente che, in quanto musicisti, siamo coinvolti nella creazione di qualcosa di molto importante. Il rischio è sempre quello: "spippolare, spippolare e spippolare", senza riuscire ad andare in profondità nell'uso dell'elettronica, limitandosi appena a scalfire la superficie. Riguardo invece all'approccio creativo è stato tutto molto più facile: ho sempre sentito il bisogno di filtrare la mia musica attraverso la sintesi elettronica; la musica che ho dentro di me non avrebbe potuto esprimersi soltanto attraverso la dimensione puramente acustica dello strumento. In questo senso ho sempre avuto le idee molto chiare. Si è trattato quindi di procurare il materiale più funzionale e di acquisire il know how necessario al procedere.

    D - Hai qualche personalità (musicisti colti e/o "popolari", Dj, ingegneri del suono) che ammiri in modo particolare per l'uso che fa dell'elettronica?

    R - Onestamente no. E non è perché non c'è gente brava che lavora con la processione sintetica del suono: è che sto cercando di dare forma alle mie visioni musicali, che erano nascoste dentro di me e che volevano a tutti i costi prendere forma oggettiva e tangibile. Se, però, devo proprio farti due nomi citerei Lorenzo Brusci ed Elio Martusciello, artisti coraggiosi ed intelligenti in grado di creare universi sonori veramente unici.

    D - E musicisti con cui ti piacerebbe collaborare, che non hai ancora avuto modo di incontrare?

    R - Allan Holdsworth, Ned Rothenberg, Enrico Pieranunzi, George Russell, Vince Mendoza sono quelli che mi vengono in mente adesso (e, per pura scaramanzia, non ti dico con i quali sono in contatto per fare musica insieme). Dimenticavo Frank Zappa ma con lui, ahimé...

    D - Un ragguaglio, infine, sui tuoi progetti più prossimi, uscite discografiche a parte.

    R - Sento che è un buon momento per me, una fase di crescita continua, riflessione e maturazione. Sto lavorando ad una serie di scritti ed è qualcosa che, oltre a piacermi, mi spinge ad esplorare sempre più a fondo il mio rapporto con la musica, la sua manifestazione, il modo con cui mi rapporto con essa e tante altre tematiche fondamentali. È qualcosa che mi porterà ad un ulteriore cambiamento della visione musicale e mi elettrizza il non sapere dove mi condurrà. Per il resto, concerti con Stefano Battaglia, Homage To A Dream, Claude Barthélémy, Dadadang (eterogeneo gruppo di percussioni con sede a Bergamo - NdR); varie interviste in uscita sui principali magazine musicali italiani ed esteri; video musicali e svariati cd in lavorazione; la mia etichetta discografica che apre i battenti con quattro uscite all'anno (a cominciare appunto dal citato "Drawing", NdR); il mio sito internet (ora anche in versione inglese) in costante aggiornamento; e poi...ricerca, ricerca ed ancora ricerca!