Percussioni n° 113

Dicembre 2000

COVER STORY

Alessio Riccio - La Coerente Trasversalità della Musica

 

di Luigi Radassao

 

    E’ un ciclone sonoro che avanza, compatto nelle maglie tentacolari tessute dai suoi dodici percussionisti, ed al centro, nell’occhio, ci siamo noi, spettatori (s)travolti. Ma bastano un paio di bassi “pompati” al momento giusto ed il clima si acquieta, il volume si abbassa, il juke-box cambia disco: il tornado, tra lo stupore generale, sa anche essere un prospero venticello, una brezza leggera leggera, un alito di suono che recede, sino alle soglie dell’inaudibile, e quindi cessa, rivelando finalmente il volto umano di questa ipnotica “macchina” soffice. E’ al termine della performance itinerante del Gruppo Percussioni Dadadang, eterogeneo ensemble bergamasco, che incontro il musicista fiorentino Alessio Riccio, “bass drum” della formazione, spossato come non l’hanno mai reso, forse, neppure i suoi trascorsi artistici più allogeni, alcuni dei quali certamente atipici.

    Batterista di grande talento; musicista, ideatore ed animatore di numerosi progetti nell’ambito della musica jazz, delle percussioni e dell’improvvisazione; attento studioso dell’arte percussiva in tutte le sue diverse espressioni (dalle tradizioni popolari al drumming contemporaneo, all’avanguardia colta); inesausto “ricercatore sonoro” in grado di far dialogare timbriche tipicamente acustiche con i nuovi media elettronici. Riassumere il mondo musicale di Alessio è cosa ardua, considerata l’ampia portata degli interessi che lo animano. Interrogarlo innanzi tutto riguardo ai suoi primi approcci con la musica, perciò, può darci qualche indicazione.


    R - Mi sono avvicinato alla musica, da zero, piuttosto tardi, verso i diciassette anni. E’ successo per caso, senza pressioni esterne, E’ stato qualcosa che ho amato subito profondamente: ricordo con tenerezza le prime lezioni, il primo strumento e le giornate passate a studiare nella soffitta dei miei genitori, con la minacciosa preoccupazione dei vicini di casa e le conseguenti, inevitabili telefonate dei carabinieri. Studiare mi piaceva moltissimo, negli ultimi due anni di scuola superiore ho frequentato anche il conservatorio: un vero e proprio massacro! Ricordo che mi portavo i libri di musica a scuola per poter studiare di più. Della musica mi affascinava il fatto che ci fosse così tanto da imparare, che fosse un viaggio senza fine e che permettesse di sognare, di fantasticare un futuro tutto mio, scoprendomi a me stesso attraverso la sua poesia. Musicalmente sono sempre stato un “secchione”: non c’era domenica che non venisse impiegata per lo studio della strumento e, una volta finiti gli studi non musicali, mi facevo programmi che investivano dalle otto alle dieci ore della giornata. Suonare non mi pesava e, soprattutto, non mi bastava mai.

Ho svolto i miei studi di musica tra Sesto Fiorentino, Firenze, Bologna, Siena e Roma con, quasi sempre, ottimi insegnanti: Timothy Kotowich e Fabio Rogai (i primi), Alessandro Fabbri e Piero Borri, il maestro Renzo Stefani del conservatorio di Firenze, Horacio Hernandez ed Ettore Fioravanti, che venivano affiancati dagli inevitabili seminari dei batteristi “famosi” di turno. In tutta onestà sono molto fiero del mio corso di studi: ho ricevuto borse di studio da Siena jazz, dal Berklee College Of Music di Boston e dal Drummers Collective di New York e mi sono aggiudicato numerosi premi, sia batteristici (tra tutti il “Modern Drummer International Contest” di New York nel 1997 e il “Percfest” del 1998), che riservati a progetti musicali di mia creazione, oltre a quelli di selezione per grandi organici orchestrali di stampo jazzistico (la Grande Orchestra Nazionale dell’AMJ, l’Orchestra OFP e la New Talents Orchestra). Tutto questo, oltre a consentirmi un confronto sereno con batteristi e percussionisti del mondo intero, nonché la presa di coscienza della reale consistenza artistica dei miei progetti, mi ha permesso di suonare con alcuni dei musicisti con cui sognavo da sempre di condividere l’esperienza dell’atto creativo.

    D -  I tuoi percorsi musicali hanno incrociato molte strade differenti, comprese quelle del rock. Poi, con la scoperta del jazz e dell’improvvisazione, ci sono stati Steve Coleman, Tim Berne, Carla Bley, Steve Lacy, Ernst Reijseger, Steve Swallow, Michel Godard - solo per fare alcuni nomi di musicisti con hai avuto occasione di condividere questo tuo “sogno”. Puoi raccontarci qualcosa di più?

    R - La divisione della musica in generi è qualcosa che ho trovato utile soltanto dal punto di vista della formazione musicale, legata quindi al doveroso rigore che è necessario riporre nell’analisi dell’evoluzione della storia della musica e dei cambiamenti che essa comporta nel linguaggio dello strumento che suoniamo. Da performer, invece, l’ho sempre sentita come un’enorme limitazione, pur avendo una vera e propria forma di venerazione per quei musicisti che si prendono l’onere (e l’onore) di tramandare la tradizione, esprimendosi con competenza e coerenza stilistica, non importa in quale genere. In tutti i miei progetti, tuttavia, c’è sempre stata, consapevolmente o meno, la tendenza alla trasversalità stilistica e/o concettuale. In questo senso l’improvvisazione è probabilmente la dimensione ideale, nella quale può prendere forma la creatività allo stato puro, quella che trascende gli stili, pur conoscendo (e rispettandone) le coordinate musicali. Tutti i grandi musicisti con i quali ho suonato erano incarnazione di ciò, conoscevano i linguaggi senza esserne prigionieri, riuscendo ad essere, allo stesso tempo, coerenti ma creativi. In loro convivevano armoniosamente conoscenza e curiosità, rispetto e spirito d’avventura, consapevolezza e spregiudicatezza, il principio e la sua stessa trasgressione. Una grande lezione!

    D - Oggi, inoltre, la tua attività musicale ti vede all’opera anche nel difficile campo dell’editoria, con una tua propria etichetta discografica. Quali sono, nei diversi ambiti, i progetti che ti coinvolgono maggiormente?

    R - La costituzione di una struttura editoriale è stata semplicemente figlia dell’esigenza di creare musica e seguirne per intero il processo realizzativo. Per me è molto importante “sentire” la potestà delle mie creazioni: il momento musicale si dilata fino ad abbracciare tutte le fasi della realizzazione di un’opera. E’ esattamente quello che ricerco: la funzione poetica della musica si mantiene inalterata fino alla sua messa in stampa, dal momento che sei tu stesso che ne stabilisci la direzionalità, curando il più piccolo dettaglio affinché la forza comunicativa della musica non si disperda, imbrigliata in mille passaggi. E’ qualcosa che mi fa sentire bene, anche perché, oltre a dare forma alle mie visioni musicali, mi permette di gestire direttamente i frutti della mia musica, e credo che ciò sia molto importante, poiché legittima gli enormi sforzi che il musicista investe nell’atto creativo. 

Oltre ai miei progetti, che peraltro assorbono un’enormità di energie, attualmente ho varie collaborazioni piuttosto fisse. Con il chitarrista francese Claude Barthélémy suono in un svariati contesti, dal duo alla grande orchestra, ed è un connubio veramente ideale per me. Scrive musica fantastica (non a caso è stato direttore dell’Orchestre Nationale De Jazz di Francia), sospesa tra le nuove forme di jazz europeo, la musica colta e l’improvvisazione: per la complessità della scrittura e la presenza della sezione ritmica nell’ensemble di matrice classica potrebbe essere accostata ad alcuni lavori orchestrali di Frank Zappa - che so - quelli di “Strictly Genteel”, “Bob In Dacron” e “Mo’n’Herb Vacation”, anche se più "francesi" e con molto jazz. E’ musica veramente unica ed è un privilegio poterla suonare: abbiamo anche un ensemble chiamo “Barthemathiques” (con il quale ricordo con particolare piacere uno splendido concerto alla “Cité De La Musique” di Parigi) nel quale suonano anche Evan Parker, Wolfgang Puschnig, Gary Valente, Michael Riessler, Sophia Domanchic e altri musicisti estremamente interessanti. Un altro artista con il quale sono molto orgoglioso di suonare a tempo quasi pieno è Stefano Battaglia, un musicista profondo e sensibile al quale riconosco un ruolo fondamentale nella mia evoluzione artistica. Anche con lui suono a trecentosessanta gradi: dal duo al grande gruppo, dall’improvvisazione (in trio con Dominique Pifarély) alla musica scritta per Theatrum, ensemble nel quale posso anche continuare ad approfondire il rapporto con le percussioni, dalle tastiere agli strumenti etnici.

Poi faccio parte anche dell’ensemble di questa sera, Dadadang, un gruppo di percussione itinerante che fonde nel proprio linguaggio espressivo ritmo e movimento, spingendo coloro che vi partecipano a prendere coscienza della totalità del proprio corpo e delle potenzialità espressive e musicali del gesto. Per me, abituato a suonare seduto dietro una batteria, è un’esperienza per certi versi rivelatoria, poiché ha spinto ancor più in profondità le mie riflessioni sull’ergonomia della musica, problematica che ho molto a cuore, vista la particolare complessità strutturale di The Metalanguage Unit, la scultura sonora che ho creato e che rappresenta il veicolo principale attraverso il quale mi esprimo in musica.

    D - The Metalanguage Unit - per il quale si rimanda alla sezione appositamente dedicata ai concetti che sono alla base della sua creazione e agli elementi che ne sono parte costituente [vedi qui] - è un poliedrico assembramento di tamburi, percussioni e metallofoni, sotto il quale batte un cuore tecnologico. Quando e come hai iniziato a lavorare con l’elettronica?

    R - La necessità di impiegare processori elettronici nel mio linguaggio è scaturita spontaneamente nel momento in cui ha preso forma nella mia mente la visione di The Metalanguage Unit. Non l’ho deciso a tavolino. E’ stato estremamente naturale: la porzione di elettronica che impiego è facente parte dello strumento stesso, assolutamente inscindibile da esso. Non è stata “integrata” ma è uno degli elementi che lo formano. Ancora una volta, riflettendo a posteriori, il risultato è stato quello di estendere le potenzialità espressive della batteria, visto anche che amo molto esibirmi in solo: ha contribuito in maniera determinante a dar forma ai suoni che avevo dentro di me e che non avrebbero potuto avere vita passando soltanto attraverso la dimensione puramente acustica dello strumento. La sua influenza è stata determinante nella rielaborazione di un linguaggio che scaturisse dalla mia natura originale di uomo e musicista, e che fosse espressione della mia autenticità.

    D - Puoi chiarirci cosa intendi per autenticità? Oggi come oggi sembra un concetto difficile, e, soprattutto, pare spesso abusato, confuso con una sorta di veridicità naturale, da contrapporre ad una innaturale artificiosità, quasi che l’arte non fosse “art-ificio” per antonomasia. Mi viene in mente una frase di Alfred Hitchcock: “io non filmo mai un pezzo di vita, perché tutti lo possono trovare senza alcuna difficoltà, a casa loro: non c’è bisogno di pagare per vedere un pezzo di vita. I miei film sono pezzi di torta”. Ma una torta può essere “pura”?

    R - Certo che può, a patto che essa sia espressione di noi stessi, della nostra essenza, della nostra natura originale. E a patto che, nel confezionarla, ci si guardi dentro, riflettendo sul significato di ciò che stiamo facendo: gli ingredienti, la preparazione e la cottura dovranno quindi passare attraverso lo scrupoloso filtro della coscienza individuale e del bilanciamento fra vocazione, consapevolezza, talento e ricerca. E, una volta finita, non bisogna spaventarsi se profumo e sapore sono, diciamo così, “particolari” e non si allineano con profumi e sapori che vanno per la maggiore. Quando poi la si offre, occorre farlo con il fine di invitare le persone ad assaggiarla in uno spazio che sia veramente nostro, in quanto espressione della nostra autenticità, e in quanto tale, appunto, puro. Sono problematiche antiche ma sempre attuali e che si rifanno ad argomenti-chiave quali il ruolo dell’artista nella società. 

    Riguardo alla questione dell’"art-ificio" ti rispondo citando a mia volta Leonardo Da Vinci, il quale asseriva che le sue sculture erano in realtà nascoste nella roccia dalla notte dei tempi e che il suo unico compito era quello di togliere tutta la roccia in eccesso per portarle alla luce: atteggiamento, questo, frutto della fusione tra la capacità volitiva dell’artista, la visionaria (e spontanea) creatività e la profonda connessione con una forma di “non volontà”, che ha luogo su un piano superiore della coscienza (o “non-coscienza”) e che si rifà, se vogliamo, ad una sorta di predestinazione naturale. Sinceramente mi sento molto più vicino a questa posizione piuttosto che a quella di Hitchcock.

    D - Osservando il video da te registrato mi sono venuti in mente due percussionisti tra loro diversissimi, direi quasi l’uno l’opposto dell’altro: Tony Oxley e Terry Bozzio. Quali sono coloro che consideri tue influenze fondamentali?

    R - Fermo restando che in questi anni il mio cammino è stato teso a un’emancipazione stilistica frutto di quel processo di riscoperta della propria autenticità del quale parlavamo prima, è realmente difficile citare dei musicisti che mi abbiano influenzato più di altri. Ce ne sono così tanti… e in tutti campi della musica, non soltanto, quindi, batteristi o percussionisti. Volendo selezionare sceglierei John Bonham, Ian Paice, Bill Bruford, Stewart Copeland e Neil Peart; il Vinnie Colaiuta di “Secrets” di Allan Holdsworth e il Dave Weckl del primo disco dell’Elektric Band di Chick Corea: Terry Bozzio, Rashied Alì, Pierre Favre, Tony Oxley, Han Bennink e Joey Baron; Jack DeJohnette, i batteristi dei vari trii di Bill Evans, il Tony Williams del quintetto di Miles Davis e, ovviamente, Max Roach e Philly Joe Jones… Ci tengo però a dire, e mi permetto ancora una citazione, questa volta di Charlie Persip, che il mio batterista preferito sono io stesso, o meglio, il batterista che aspiro a diventare, nel quale spero di riuscire a fondere influenze e originalità, esigenze musicali e desideri, conoscenza e intuizione, consapevolezza e capacità visionaria. 

Riguardo a Oxley e Bozzio, beh, uno dei miei obiettivi come batterista è proprio quello di cercare di unire in me linguaggi apparentemente antitetici. Dico apparentemente perché, a mio avviso, Bozzio e Oxley sono molto più vicini di quanto si pensi: entrambi, infatti hanno come fine assoluto la ricerca, il tentativo di espandere i confini espressivi del nostro strumento. Il fatto che lo facciano con stili e tecniche differenti fa parte di quella peculiarità che ogni vero artista possiede e che è, ancora, espressione delle ovvie diversità, proprie della natura originale. Sarà retorico ma trovo che l’uscita di Bozzio, che rinunciò, alla visibilità dei Missing Persons perché sentiva che non era ciò che faceva per lui, è estremamente esplicativa dei concetti di cui sopra, considerata anche l’autorevolezza del personaggio. Per me si tratta di seguire il proprio personale cammino.

    D - Il tuo lavoro, in effetti, è tutto incentrato, al di là della ricerca timbrica, sulle (s)composizioni ritmiche e sugli schemi delle polimetrie. E’ corretto dire che usi l’elettronica per creare una sorta di gabbia, una forma in cui muoverti e dalla quale partire, allargandola e modificandone via via i contorni e i punti di percezione? I loop quali cerchi non concentrici, bensì policentrici?

    R - Direi che fondamentalmente il mio linguaggio aspira all’assoluta libertà linguistica, possibile soltanto attraverso l’abbattimento della rigidità ritmica propria di gran parte della musica occidentale. E ciò avrà luogo soltanto quando, grazie all’acquisizione della consapevolezza dei fraseggi anche più antitetici, non distribuiremo più i “colpi” secondo griglie matematiche precostituite, che si suoni “a tempo” oppure no. Solo allora il vocabolario musicale del batterista si allargherà a dismisura, permettendo al ritmo di respirare, vivendo attraverso il suo stesso respiro.

L’elettronica è parte costituente di questo processo: sia che utilizzi i loop, i campionamenti i diretta o i ribattimenti di durata variabile, essa dovrà fondersi con ciò che io deciderò di suonare in un dato momento, che potrà essere dentro o fuori, a favore o contro. La musica è l’unico giudice. Dei loop, in particolare, adoro il fatto che grazie a essi mi è possibile creare dei flussi ritmici che non possiedono una direzionalità fissa, prendendo forma su metriche molto lunghe e fondandosi in prevalenza sull’effetto auto-ipnotico della ripetizione. Io li chiamo ritmi cubisti per la loro caratteristica di poter essere ascoltati e interpretati secondo le più diverse angolazioni dato che, come nella pittura, si sviluppa una relazione continua tra linea primaria e linee secondarie che si distribuiscono tra tempo e spazio, solo che in questo caso parliamo di porzioni di ritmo musicale. L’obbiettivo è quello di offrire all’orecchio una fluttuante molteplicità di aspetti e di fungere da punto di riferimento per l’evoluzione del concetto di timekeeping. Inoltre la loro naturale densità mi fa apprezzare maggiormente i momenti di silenzio, nei quali far risuonare le vibrazioni di un singolo strumento fino all’estinguersi del suono, alla sua cristallizzazione.

    D - Dacci infine qualche traccia per seguire questo tuo personalissimo cammino: quali sono i progetti per l’immediato futuro?

    R - Concerti con Claude Barthélémy, con Dadadang, con le sculture sonore che abitualmente suono (coinvolgenti opere scultorio-musicali di Andrea Dami, artista di Pistoia - nda), con Homage To A Dream e registrazioni in studio con Stefano Battaglia. Completerò poi alcune delle mie realizzazioni discografiche e i miei video e spero di riunire in un libro alcuni scritti cui sto attualmente lavorando e che sono estensioni di alcuni concetti di cui abbiamo parlato. Ciò che per me rimane l’obbiettivo primario è la crescita artistica che ha luogo attraverso la messa in opera di tutti questi lavori che, ancora una volta, considero veicoli piuttosto che punti di arrivo: l’approfondimento, la riflessione, la cura del dettaglio e la riunione del tutto in una visione olistica della musica, senza separarla da tutti gli altri campi del vivere. E, soprattutto, far si che essa sia, sempre e assolutamente, espressione della mia natura originale. In una sola parola: evoluzione!