Drum Club - Febbraio 2001
Alessio Riccio - Ricerca e Innovazione
di Luigi Radassao
Di primo acchito, con la sua statura da vichingo, la lunga capigliatura corvina ed il chiodo di pelle nera indosso, Alessio Riccio somiglia più ad un eccentrico heavy-metal drummer che al coscienzioso cultore dell’arte della percussione che conosciamo. Ma i suoi modi affabili, la sua estrema disponibilità e, soprattutto, l’ampia fioritura di motivi musicali che viene a galla scambiando due chiacchiere con lui, tradiscono immediatamente questa immagine, conservando tuttavia quanto di più importante l’eccentricità dovrebbe portare con sé: la molteplicità negli interessi, il pluralismo degli indirizzi artistici e l’anticonformismo nelle scelte musicali.
Eclettismo è il termine che meglio si confà alla vulcanica personalità di Alessio: batterista naturalmente dotato e dal curriculum studi articolatissimo; artefice e promotore di progetti eterogenei nell’ambito del jazz, della musica per percussione e dell’improvvisazione; profondo conoscitore della percussione nelle sue diverse manifestazioni (dalle tradizioni etniche, all’evoluzione storico-strumentale della batteria, alla ricerca colta occidentale); ma soprattutto musicista impegnato nel costante approfondimento di una propria dimensione espressiva, che non ha rinunciato a mettere in gioco il suo stile, le sue idee ed il suo stesso strumento al fine di raggiungere inconfondibili peculiarità. Questa eccentricità dei percorsi tanto artistici quanto formativi, ha descritto spesso stimolanti traiettorie “prive di centro”, a gravitazione variabile, delle quali la musica ellittica di Alessio, orbitante attorno ad una pluralità di fuochi, può essere considerata l’immagine trascendente.
E’ nel tentativo di “allineare”, quanto più possibile, questa tentacolarità musicale e culturale che gli chiediamo informazioni riguardo ai suoi primi approcci alla musica ed alla batteria.
R - La mia scoperta della musica è avvenuta piuttosto tardi, verso i diciassette anni, assolutamente per puro caso e, di conseguenza, senza alcuna pressione. Proprio per questo, forse, l’ho amata subito profondamente: conservo magici ricordi delle mie prime suonate nella soffitta dei miei genitori, delle prime lezioni e persino delle minacce dei vicini di casa che mi diffidavano dal suonare “il tamburo”. Studiare mi è sempre piaciuto, è stata una sorta di seconda natura che vivevo come un modo di avvicinarmi alla musica, che recitava su di me un potere quasi ammaliante. E’ per ciò che probabilmente l’ho sempre anteposto ad altre cose più normali per un adolescente, costringendomi, negli ultimi due anni di scuola, a frequentare anche il conservatorio, in un vero e proprio delirio di libri, orari, lezioni e insegnanti. La musica era tutto: in questo senso sono sempre stato un secchione dato che non c’era domenica che non venisse impiegata nello studio dello strumento. Poi, terminati gli studi extra-musicali, mi facevo programmi che investivano dalle otto alle dieci ore della giornata. Suonare non mi pesava e, soprattuto, non mi bastava mai. Ho studiato musica in Italia, tra Sesto Fiorentino, Firenze, Bologna, Siena e Roma con, quasi sempre, ottimi insegnanti: tra questi Timothy Kotowich e Fabio Rogai (i primi!), Alessandro Fabbri e Piero Borri, il maestro Renzo Stefani del conservatorio di Firenze, Horacio Hernandez ed Ettore Fioravanti, ai quali affiancavo gli stage dei batteristi che non potevo seguire abitualmente. Sono molto orgoglioso del mio percorso di studi: ho ricevuto borse di studio da Siena Jazz, dal Berklee College Of Music di Boston e dal Drummers Collective di New York e mi sono aggiudicato numerosi premi, sia batteristici (tra tutti il Modern Drummer International Contest di New York nel 1997, l’Outstanding Musicianship Award del Berklee di Boston nel 1994 e il Percfest nel 1998), che premi riservati a progetti musicali, oltre a quelli di selezione per grandi organici orchestrali di stampo jazzistico (la Grande Orchestra Nazionale dell’AMJ, l’orchestra OFP e la New Talents Orchestra). Sono state esperienze estremamente importanti perché mi hanno fatto crescere molto, attraverso un confronto sereno con batteristi e percussionisti di tutto il mondo, guidandomi verso la presa di coscienza della reale consistenza artistica dei miei progetti e portandomi a suonare con alcuni dei musicisti con i quali sognavo da sempre di condividere l’esperienza creativa della musica.
D - Musicisti di estrazione assai diversa, mi pare, ciascuno con un proprio bagaglio tecnico e culturale differente. Quali sono stati i più importanti e quale è stato il tuo rapporto con loro?
R - Lo sono stati tutti anche se in modi e momenti diversi: i Time Escape, il mio primo gruppo, insostituibile iniziazione musicale, nucleo che all’epoca ricevette accoglienza e recensioni assolutamente incredibili; Steve Coleman, Carla Bley e Steve Swallow, che ho incontrato in un momento decisivo per la mia crescita artistica, quello cioè del passaggio da batterista a musicista; l’esperienza nell’Orchestra Giovanile Italiana di Jazz con Mario Raja (che ricordo con particolare piacere), Bruno Tommaso, Giancarlo Schiaffini, Gianluigi Trovesi, Eugenio Colombo e Rudi Migliardi; Tim Berne, Dominique Pifarély, Michel Godard, Steve Lacy, Gabriele Mirabassi ed Ernst Reijseger che hanno partecipato ai miei progetti e con i quali, nonostante i tempi ristretti, ho potuto dare forma a una parte delle mie idee musicali. Poi, naturalmente, i musicisti con cui collaboro costantemente, e cioè Claude Barthélémy, la cui musica sembra cucita su misura per me, una sorta di Frank Zappa del jazz, sempre in bilico tra rigore estremo ed autoironia; e Stefano Battaglia, un musicista di grande sensibilità che possiede un posto speciale nel mio cuore, vista la grande spinta che ha dato alla mia maturazione artistica.
D - Da chi o che cosa ha invece avuto luogo lo strumento che suoni? In apparenza può sembrare una sorta di batteria dilatata, ampliata al fine di accogliere tamburi e metallofoni di differente provenienza e che, suonata da te, si capisce che non si tratta di un mero ampliamento dello strumentario percussivo, ma della ricerca di uno strumento nuovo, così come potevano esserlo le creature sonore di Harry Patch, le tastiere multimediali di Scriabin o gli Intonarumori di Russolo.
R - The Metalanguage Unit è una visione scaturita dal mio inconscio, dalla parte più profonda della mia essenza di uomo e artista. E’ difficile risalire a ciò che può esserne stato causa scatenante, dato che si è manifestata nella mia mente senza nessun preavviso. Credo fermamente che essa rappresenti qualcosa di puramente mio: è il mio temenos, uno spazio autentico nel quale invitare alla condivisione dell’esperienza musicale coloro che possono esserne interessati. L’enorme lavoro servito a traslarla dalla dimensione onirica a quella tangibile è consistito fondamentalmente in una maniacale cura del dettaglio, espressa attraverso la personalizzazione di ogni elemento, da quello strumentale a quello meccanico. E’ per questo che la considero più di una batteria: è una scultura sonora nella quale trovano forma l’intangibilità del momento musicale e la concretezza dell’oggetto sonoro. E’ allo stesso tempo creazione e veicolo, punto di arrivo e (ri)partenza, espressione di purezza e rigore artistico, tutti fattori, per me, estremamente importanti in musica. La sua realizzazione è stata occasione di grandi riflessioni, dell'uomo e dell'artista: una vera e propria rinascita, che mi ha liberato dagli inevitabili condizionamenti insiti nei processi di apprendimento e dalle pressioni dei costruttori di strumenti musicali, che spesso spingono i musicisti a utilizzare tutti le medesime configurazioni strumentali. In questo senso mi sento in dovere di menzionare, ringraziandoli di cuore, Luigi Tronci della Ufip e Luca Deorsola della Drum Sound che, alla guida di aziende dotate di una filosofia diciamo “diversa”, hanno avuto un ruolo determinante nell’aiutarmi a concretizzare queste visioni.
D - La batteria è spesso associata ad un’immagine (e ad un comune immaginario) fatto di virtuosismo e, in alcuni casi, di competizione: nonostante tu abbia partecipato (e vinto) in numerosi concorsi, non mi sembri essere particolarmente attratto da questo aspetto agonistico.
R - Il problema del batterismo “circense” ha a mio avviso due fonti: la prima senz’altro legata alla didattica del nostro strumento che spesso e volentieri è totalmente separata dalla musica e dalle sue esigenze primarie. Basi pensare che siamo ancora legati ai rudimenti, figure nate per il tamburo militare ed impiegate, in epoche e culture diverse, per la guerra, allo scopo di galvanizzare i soldati e spaventare i nemici. Nonostante essi siano stati codificati per una nobile causa (con lo scopo, cioè, di fermare su carta una sorta di alfabeto comune per il tamburo) al mio orecchio non hanno mai perso la stasi ritmica tipica della musica marziale. Penso inoltre che dopo le applicazioni che ne hanno fatto Baby Dodds, Chick Webb, Buddy Rich, Philly Joe Jones e Steve Gadd sia rimasto veramente poco da dire al riguardo. Per i musicisti novizi, poi, essi rappresentano un pericolo poiché, se da un lato consentono una certa scioltezza tecnica, dall’altro li paralizzano in una gabbia ritmica completamente avulsa dalla maggior parte dei contesti nei quali si troveranno a suonare, costringendoli poi a pensare in forma di pattern e impedendo loro l’auspicata emancipazione linguistica, che può aver luogo solo ed esclusivamente quando il batterista lascia il posto al musicista e, di conseguenza, abbandona gli esercizi studiati a casa per abbracciare la matura libertà della composizione estemporanea. La seconda sorgente appartiene, invece, al mondo dei batteristi statunitensi, ad un certo tipo di immagine che molti dei nostri colleghi d’oltre oceano ci impongono, arrivando addirittura a proporsi esclusivamente come clinician, paradosso inaccettabile per coloro che considerano la batteria un veicolo per l’espressione artistica. D’altronde sappiamo che la cultura statunitense è aggressiva e colonizzatrice e che tende a esportare piuttosto che a importare, supportata da aziende dal notevole impatto commerciale. Cosa che avviene, peraltro, a tutti i livelli, non solo nella musica.
D - Mi pare che pur se abbastanza giovane (Alessio è appena trentenne, nda) tu stia cercando di essere diverso non soltanto dal batterista “accompagnatore”, ma anche dal percussionista solista. Una ricerca condotta per provare a costruire un suono più globale…
R - La musica è di per sé linguaggio globale ed è attraverso questa convinzione che prende forma la mia ricerca, a sua volta espressione della trasversalità che da sempre caratterizza i miei progetti. I punti di partenza sono molteplici ma tutti hanno una base comune: accuratezza e approfondimento. E’ un po’ come in un organismo vivente le cui funzioni, anche le più complesse, si fondano nel funzionamento della singola cellula. Trasposto in musica si tratta di dare forma ai suoni che ho dentro di me, facendoli uscire dalla parte più profonda e autentica della mia essenza, vivendoli per ogni attimo della loro manifestazione. Sono convinto che la personalità di un musicista non la si costruisca a tavolino ma la si scopra, attraverso un processo naturale, liberandola dalle convenzioni e dai i cliché dai quali, purtroppo, anche la musica non risulta essere immune. Per me si è trattato di abbattere quei muri che inibivano la spontanea manifestazione della musica che viveva in me e che, una volta liberata, ha portato a ciò che tu hai percepito come “diverso” e che io definirei “originale”, intendendolo come una dimensione unicamente mia, da condividere con il pubblico nel momento della performance. D’altronde una delle frasi della mia giovinezza che più mi ha impressionato, e che tutt’ora mi ronza in testa come un’ossessione, è stata quella di Charlie Persip, uno dei batteristi di Count Basie, che dichiarava di non avere un batterista preferito dato che il suo batterista preferito era lui stesso, o meglio… il batterista che aspirava a diventare.
D - L’ascolto, l’interazione: è dunque lì che risiede per te la parte misteriosa - sorprendente della musica?
R - La sorpresa della musica si situa un passo oltre il limite delle nostre conoscenze di strumentisti e delle nostre esperienze artistiche. E’ quella la porta verso la creatività assoluta, l’obbiettivo ultimo. Per me è un’esigenza primaria: non sono mai riuscito ad accettare di suonare musica sapendo a priori quello che sarebbe successo, o ancora peggio, secondo modelli che non riconoscevo come tali. Non importa lo stile o il contesto, ciò che conta è l’atteggiamento, sempre in bilico tra vocazione, talento, disciplina e senso di responsabilità. Che si dialoghi con noi stessi o con gli altri poco importa, è più una scelta artistica legata alla direzione nella quale si vuol procedere in un dato momento. L’importante è che la musica che suoniamo sia espressione di noi stessi e della nostra voglia di crescere, senza paura del mistero o del fallimento.
D - Tra i batteristi delle ultimissime generazioni quali sono quelli che ti piace ascoltare o che ammiri?
R - Per rispondere a questa domanda prendo a prestito una frase del pianista olandese Misha Mengelberg contenuta in un libro che amo molto, L’Improvvisazione” di Derek Bailey. Egli sostiene che dato che gran parte delle cose che vorrebbe sentire non le suona nessuno, allora se le suona lui. Ecco io mi sento un po’ così. Non fraintendermi, però: ci sono tanti batteristi bravi oggi, quasi tutti poi dal punto di vista strumentale. In questo momento però sono molto concentrato nel cercare di dar forma alle mie visioni musicali è ciò mi fa essere molto selettivo per ciò che riguarda gli ascolti. Se proprio vuoi dei nomi, ti darò quelli dei batteristi che sto ascoltando in questo momento, anche se non si tratta proprio di “novellini”: Neil Peart, Terry Bozzio e Joey Baron. Inoltre, le influenze più grandi per me, al momento, sono quasi tutte non batteristiche.
D - I tuoi progetti per il futuro e realizzazioni imminenti?
R - Concerti con Claude Barthélémy e Homage To A Dream, registrazioni con Stefano Battaglia e il completamento delle mie realizzazioni discografiche e dei miei video, progetti, questi ultimi, che considero veicoli piuttosto che punti di arrivo: l’approfondimento, la riflessione, la cura del dettaglio e la riunione del tutto in una visione olistica della musica, senza separarla da tutti gli altri campi del vivere. E, soprattutto, far sì che essa sia, sempre ed assolutamente, espressione della mia natura originale, vera e propria chiave verso l’evoluzione.