DRUM CLUB Aprile 2019
OLTRE I CONFINI DEL DRUMMING
Alessio Riccio - Poliritmi e Diacronie
di Mario A. Riggio
Alessio Riccio è un artista sfuggente, volutamente al di fuori dei vari circuiti mediatici, da più parti considerato uno di quei batteristi che operano per espandere l’universo conosciuto, ponendosi ai limiti della galassia della batteria e spingendo per arrivare a espanderne i confini. Il suo lavoro vanta una crescita costante nel tempo e coinvolge vari aspetti dello strumento batteria. Partendo da fondamenta tecniche di livello planetario (già nel 1994 si è aggiudicato l’Outstanding Musicianship Award del Berklee College of Music di Boston), Riccio lavora su molteplici dimensioni: quella timbrica, sperimentando suoni e ibridazioni acustiche ed elettroniche; quella artistica, affiancando alcuni grandi del jazz e suonando con alcune icone della musica di avanguardia; quella ritmica; portando agli estremi il concetto di poliritmia.
Proprio di poliritmia tratta il suo metodo, intitolato “Poliritmi - Volume 1: Diacronie” [qui], che verrà completato da un secondo volume previsto per il 2019. “Diacronie” propone un’analisi approfondita dell’universo poliritmia, sviluppando, dopo una necessaria fase preliminare, quelli che Alessio definisce ritmi multi-dimensionali. Il metodo propone varie strategie esecutive tese a preparare il musicista ad affrontare i ritmi mutanti, definizione che Alessio attribuisce a poliritmie particolarmente elaborate. La multiforme personalità di Riccio, musicista sensibile all’interazione pratica e concettuale fra suono e filosofia, si manifesta in maniera prorompente attraverso questo libro, in cui le connessioni fra la componente strumentale e quella teorica, estetica e filosofica, si affiancano a più di duecento esempi audio.
Alessio Riccio è un artista complesso per l’estrema meticolosità con cui affronta ogni argomento, di cui vuole avere il controllo completo. Complesso è anche il suo approccio alla batteria, per dirla alla Bill Bruford “troppo jazz per il rock e troppo rock per il jazz”. La sua personalità curiosa e atipica si evince anche dal curriculum, ricco di collaborazioni e successi - eh sì, successi - perché Alessio è anche un tipo competitivo: vince concorsi internazionali, è considerato più volte fra i migliori nuovi talenti italiani dell’anno dalla rivista Musica Jazz e realizza dischi che suscitano grande attenzione. Il suo “Drawing - Opus 2: Paul Klee” è stato recensito “Cd of The Month” sul prestigioso magazine statunitense Modern Drummer [qui]. Riccio suona poi con icone mondiali del Nu Jazz quali Tim Berne, Carla Bley, Steve Coleman, Steve Lacy, Evan Parker, Elliott Sharp, Steve Swallow e molti altri. Dal 1994 lavora instancabilmente alla sperimentazione di un drumkit estremamente customizzato, la sua The Metalanguage Unit, una batteria/scultura sonora/macchina vivente, che si evolve nel tempo [qui]. Dal 2001 è parte del corpo docente di Siena Jazz.
Noi lo abbiamo incontrato per una breve intervista.
D - Alessio, dopo anni di iperattività batteristica sembra che adesso ti interessino anche altri percorsi. Ci vuoi raccontare qualcosa?
R - In realtà il mio rapporto con lo strumento e con il ritmo in generale non si è mai interrotto. Anzi: da una ventina d’anni lavoro con l’elettronica prediligendo la dimensione elettroacustica, e ho cercato di inglobare questo approccio anche nella mia idea di drumming. Nei miei primi album i due poli, acustico ed elettronico, tendevano a procedere in parallelo mentre dal mio ultimo lavoro su disco, Ninshubar del 2013, si sono radicalmente fusi per dar vita a una concezione di batterismo che definisco ibridata: tecniche, fraseggio, finalità espressive sono totalmente frutto di un ripensamento del rapporto fra presente e passato, fra musica suonata dal vivo e musica ricontestualizzata in un ambiente sonoro e concettuale differente da quello in cui aveva preso forma in origine. Trovo questa idea di drumming fresca e appassionante, mi sembra che riesca a manifestare efficacemente la schizofrenia con cui tendiamo a esperire la vita e la musica oggi, e mi inorgoglisce che praticamente tutti coloro che ascoltano il mio batterismo ibridato mi riconoscono una grande originalità. Era il mio obbiettivo di musicista e strumentista e l’ho perseguito con tutte le mie forze.
D - Musica da leader, musica da sideman, musica per il teatro, docenza. Quali sono i tuoi progetti al momento?
R - Sono molteplici. A mio nome sto lavorando a due nuovi album, sulla falsariga dell’appena citato Ninshubar. Nel 2019 dovrebbe uscire il secondo libro che ho dedicato a uno dei miei pallini batteristici, i poliritmi. Da sideman mi capita molto spesso che mi vengano chiesti dei remix, la rilettura di musica già esistente secondo la mia sensibilità di compositore ed elaboratore di suoni. La musica per il teatro è un ambito che negli ultimi dieci anni mi ha visto molto impegnato: da soundtrack per spettacoli shakespeariani, a musiche per performance di sapore più contemporaneo, a supporto sonoro per letture a tema o installazioni, sembra che si tratti di un contesto creativo che ben accoglie la mia idea di musica, suono e ritmo. Svolgo anche attività di docenza, evitando però di rimanerne soffocato.
D - Hai spesso collaborato con artisti di altre discipline come la scultura e la danza. Cosa pensi dell’interazione fra le arti? Ritieni di far parte di qualche movimento culturale specifico?
R - Mi fai ricordare i tempi in cui lavoravo con la Ufip alle sculture sonore. Luigi Tronci e Andrea Dami avevano battezzato Ufip Art quel dipartimento dell’azienda pistoiese che si dedicava al rapporto fra percussione e scultura. E’ stato un momento fecondo e appassionante: ho suonato decine di volte le sculture sonanti di Andrea Dami (alle quali è dedicato il mio secondo album da solista, Unsubstantial del 2001), di Jaume Plensa, di Armando Marrocco, di Eliseo Mattiacci e di Fernando Sulpizi, in una fusione di sonorità, concetto, rapporto fra gesto e suono, confluiti poi con grande naturalezza sia nella mia musica che in The Metalanguage Unit, il mio strumento. Credo che oggi le arti interagiscano in maniera estremamente naturale: la tecnologia, sia essa fattiva o di diffusione delle pratiche musicali, ha fluidificato enormemente le relazioni fra le arti e i linguaggi. In ogni caso per me è sempre stato molto naturale cercare connessioni extra batteristiche ed extra musicali. Sul movimento culturale, poi, penso di sì: mi sento un artista fortemente militante, direi anti-mainstream. Non ho mai amato l’idea di avere un rapporto troppo semplicistico con la musica, e pure con la batteria. Credo che mai come oggi ci sia bisogno di artisti che rivendichino il diritto ad esistere delle forme musicali più particolari, dettagliate, multiformi e anticonformiste. Sono profondamente convinto che tutto questo abbia un effetto straordinariamente positivo sulla società che abitiamo, dalla semplice proposta di linguaggi e percorsi artistici imprevedibili e demassificanti fino a un più alto desiderio di democratizzazione delle possibilità di fruizione a disposizione di tutti.
D - La cura del dettaglio è alla base del tuo approccio alla musica: è la tua indole naturale o è una scelta filosofica?
R - Entrambe le cose. E’ tendenza ma anche riflessione, è istinto ma anche lucida analisi. In ultima istanza, però, è piacere personale, una forma di sensualità da cui mi sento di far pervadere ciò che faccio. E’ chiaro che la cura del dettaglio richiede molto tempo e il dazio che si paga è che si impiega di più a portare a termine i propri progetti, quindi se ne realizzano di meno. Ma per me questo non è un problema, anzi: in un’epoca come la nostra, stravolta dall’horror pleni, credo che sia qualcosa che faccia bene anche alla semiosfera, spesso ingolfata dall’inutile. Selezionare con cura ciò che riteniamo più rappresentativo del nostro lavoro sarà sempre più decisivo per scongiurare il senso di sconforto e sopraffazione che a volte accompagna il tentativo di orientarsi nel magma delle proposte musicali.
D - Fai parte di quella ristretta cerchia di artisti/batteristi che lavora all’espansione dei limiti dello strumento. Ti vedo sempre come un’astronauta lanciato su una navicella ai confini dell’ignoto. Verso quali nuove direzioni stai andando?
R - La costruzione dell’idea di batterismo ibridato di cui ti ho già detto ha richiesto molto tempo e altrettanti sforzi, pratici e concettuali. Vorrei quindi abitare questa dimensione creativa ancora per un bel po’, affinandone tecniche esecutivo/fattive e messaggi. I miei prossimi due album nonché un libro dedicato alla mia musica dovrebbero essere i contenitori ideali di questa pulsione creativa. Sto poi lavorando a un progetto di solo drumming cui tengo infinitamente, ma ci vorrà un po’ di tempo. In generale sono attratto dal mistero, o come hai scritto tu, dall’ignoto, per cui, da buon astronauta, tendo a a gravitare attorno a galassie poco esplorate.
D - Da cosa nasce questa tua passione per le poliritmie?
R - Sempre avuta. Forse Frank Zappa? Il retaggio dei miei studi classici, con la musica di Stockhausen, di Nancarrow e di Ives? Il fatto di essere un batterista un po’ nerd e di avere letteralmente consumato i primissimi libri pubblicati da Peter Magadini alla fine degli anni Sessanta? Mi piace pensare al destino, al fatto che era un percorso che dovevo compiere.
D - La poliritmia non è un po’ la chiusura del cerchio? E’ uno studio terribilmente complicato, ma si ricollega alla musica dell’Africa subsahariana, suonata con immensa naturalezza da popolazioni musicalmente non così erudite.
R - Vero. Ne parlo anche nel mio libro, di come in materia di ritmo la musica africana e indiana abbiano davvero spalancato porte espressive enormi. Diciamo che da batterista occidentale, abituato a fruire anche di musica scritta, mi sono appassionato a quei piccoli dettagli che distinguono una figurazione poliritmica dall’altra, all’accuratezza che occorre porre per distribuire correttamente le note nello spazio sonoro, al riprodurre fedelmente tutti quei ritmi iper “formulosi” e a tentare di ricontestualizzarli sia in una dimensione puramente acustica che in ambienti musicali più ibridi, in cui istinto e techné convivono fruttuosamente. Eseguendo e poi riascoltando gli esempi audio relativi agli esercizi del mio libro mi sono trovato a riflettere su come questi ritmi che convivono in maniera così poco lineare, che sfregano l’uno contro l’altro, che costringono a una pratica di discernimento pressoché cronica, siano incredibilmente “contemporanei” se pensiamo al mondo che ci circonda e alle problematiche che affrontiamo ogni giorno nelle nostre vite anche extra-musicali.
D - Ci descrivi nel dettaglio, anche sonoro, l’ultima versione di The Metalangauge Unit, la tua “TMU”?
R - Non troppo nel dettaglio! Il mistero è un ingrediente fondamentale delle cose belle! Sono arrivato alla versione 6.0. Ho iniziato a manipolare, customizzare e adattare la mia prima Sonor Hilite nel 1994. Da lì, attraverso varie fasi e il rapporto con aziende dinamiche e supportive come Ufip e Drum Sound, non mi sono più fermato. Sono passato attraverso fasi in cui lo strumento era letteralmente mutato in qualcos’altro ma negli ultimi anni ho voluto recuperare una dimensione più batteristica, senza perdere però l’idea di sperimentazione estrema, dello strumento che detta la sua legge o che comunque non è passivamente subordinato ai voleri dello strumentista. Al momento attuale la mia TMU è composta da tamburi Sonor SQ2 e da piatti e percussioni metalliche Ufip, Hammerax e Steve Hubback. Per chi fosse interessato c’è il mio sito web, www.alessioriccio.com.
D - Con quali scopi hai pubblicato POLIRITMI, VOLUME 1, DIACRONIE e a chi è diretto?
R - L’ho pubblicato perché era in nuce da almeno un decennio. Come ho già detto la passione per la poliritmia mi pervade da quando ero un ragazzino. La parte pratica del libro, le partiture e i più di duecento esempi suonati erano pronti da tanto tempo. Volevo però associare alla componente esecutiva una dimensione concettuale evoluta, molteplice. Tessere una relazione fra un rapporto complesso con il ritmo e una relazione profonda con la musica, alimentando l’idea che il ritmo possa davvero essere un vettore espressivo profondissimo anche nella musica occidentale. Questo ha richiesto un lavoro extra-musicale, o almeno non legato strettamente alla pratica strumentale: filosofia, estetica, senso di militanza sono tutte confluite in un lavoro che Ari Hoenig ha definito indispensabile, aggiungendo che a suo avviso il mio libro possa davvero essere il completamento di tutta una serie di studi sui poliritmi pubblicati nei decenni. Il volume, assieme al secondo, in arrivo nel 2019, è destinato a tutti coloro che non si accontentano di groove e backbeat, almeno nella loro applicazione più superficiale, e che desiderano ampliare la percezione del ritmo e delle sue sfumature più misteriose e radicali.